Il passerotto e la farfalla

“Carringia”, lo chiamavano gli amici. Eppure il suo fisico non ricordava affatto quello del quasi omonimo campione brasiliano Manoel Francisco Dos Santos, detto Garrincha, il passerotto.

Il nostro Carringia era invece un ragazzone imponente di un metro e ottanta. Ma pure lui, quando scattava sulla fascia destra, era agile e imprendibile come una farfalla. Così i compagni gli avevano affibbiato, in forma dialettale, lo stesso soprannome del più grande dribblatore della storia.

Solo che il suo campo di calcio non era lo stadio del Botafogo ma lo spiazzo sterrato dietro al cimitero. L’unico posto dove al suo paese, negli anni ’60, ci fosse lo spazio per giocare una partita. Le porte erano due pali verticali di castagno senza neppure una traversa. Le delimitazioni del terreno di gioco da un lato la strada e dall’altro il torrente; faceva da tribuna la scarpata sottostante al muro del camposanto, ricoperta di cespugli di ginestre e rovi. Nonostante ciò, ogni pomeriggio decine e decine di persone si affollavano per seguire le sfide memorabili fra i vari rioni, fonti di rivalità accesissima. Quasi sempre ad avere la meglio era il Piano di Sopra, la squadra  in cui militava Giorgio Corvacci; “Carringia”, appunto, che faceva impazzire i difensori avversari e segnava caterve di gol.

Giorgio crebbe col mito del calcio, di una realizzazione che passasse attraverso il suo innegabile talento. Ma erano anni difficili e lavoro non ce n’era, così a diciassette anni, insieme a molti altri, dovette emigrare in Lombardia. Poco male, pensò, lì qualche osservatore di una grande squadra gli avrebbe consentito di cogliere quell’occasione che attendeva da sempre.

Di giorno lavorava alla catena di montaggio.  Finito il turno, partecipava ad interminabili partite sul campetto adiacente il caseggiato nel quale condivideva l’alloggio con diversi suoi compaesani. Finalmente, alla soglia dei diciotto anni, grazie all’interessamento di un dirigente che partecipava a quelle sfide del dopolavoro, fu chiamato per una selezione al Como che allora militava in C.

Il provino andò così così. La tecnica innata non mancava, del resto c’era voluto un gran talento a  dribblare per anni gli avversari al paese senza mai finire nel torrente. Però era completamente digiuno di tattica, non faceva squadra, un anarchico. In più, di testa non poteva certo definirsi un genio, ed ormai a quell’età in entrambi i campi era un miraggio migliorare. Investire su di lui non fu perciò reputato conveniente.

Gli venne comunque offerta la possibilità di aggregarsi agli allenamenti della squadra Primavera. Più che altro per non dire di no a chi l’aveva raccomandato, ma anche perché non ebbero cuore di dargli subito un responso negativo quando lo videro, lui così grande e grosso, tremare come una foglia in attesa dell’esito.

Passarono così alcune settimane nelle quali si impegnò come un forsennato. Levatacce all’alba per correre lungo l’Adda a fare fiato, poi dieci ore in fabbrica e quindi all’allenamento, dove arrivava già esausto ma sorretto da quel grande entusiasmo che non lo abbandonava mai. Perciò fu una vera crudeltà quel che gli combinarono.

L’allenatore a un certo punto doveva pur dirglielo che l’avventura era finita. Che il calcio professionistico non faceva per lui e sarebbe stato preferibile impegnarsi  nel lavoro, magari iscriversi ad una scuola serale per ottenere quella licenza media che aveva tentato invano al paese. Ci provò, il buon uomo, ma ogni volta che tentava di aprire bocca sentiva un groppo in gola, perché Giorgio si metteva sull’attenti, con un sorriso a trentadue denti – per modo di dire: l’igiene dentale non era mai stata il suo forte e c’erano un sacco di assi divelte nello steccato – e si aspettava chissà quale comunicazione, magari di essere schierato in prima squadra all’esordio in campionato. E così finiva che il mister rimandava e Giorgio aveva modo di trascorrere l’ennesima notte a sognare il suo nome in prima sulla Gazzetta, un contratto a sei zeri, donne e motori a piacimento per vantarsi con gli altri come lui. Che avevano lasciato il paese con molti sogni e invece a stento sbarcavano il lunario in quelle squallide e fredde case di ringhiera avvolte dalla nebbia a mille chilometri di distanza dal paese d’origine.

Gli amici in realtà, visto il passare del tempo senza uno straccio di convocazione, l’avevano intuito come sarebbe andata a finire. Ma invece di smontare con delicatezza quei castelli in aria, ci presero gusto a farli precipitare. Che fa sempre bene all’anima avere qualcuno più a terra di te. Meglio ancora se è uno che un po’ di talento il Signore gliel’ha donato, anche se non è sufficiente per volare alto e regale come un’aquila ma solo fra i piedi come un umile passerotto.

Uno di loro che faceva le pulizie in una tipografia si prese la briga di architettare la burla. Con la complicità del compositore di bozze – lui l’italiano lo masticava appena – realizzò una copia della Gazzetta tale e quale all’originale, con l’unica differenza di una pagina interna. Dove si parlava del talento di un giovane emigrato che durante un allenamento col Como era stato notato da osservatori dell’Inter. I quali, estasiati dai suoi dribbling, l’avevano proposto al Presidente Moratti per sostituire il brasiliano Jair sulla destra. Il titolo dell’articolo, con un gioco di parole in realtà non proprio benaugurante, era “Corvacci volano su San Siro”. Ma il povero Giorgio non colse la più o meno involontaria accezione negativa, anzi scoppiò in lacrime di gioia quando alla copia tarocca del quotidiano sportivo seguì a stretto giro una convocazione, altrettanto fasulla, presso la sede dell’Internazionale, a Milano, per la stipula del contratto.

Memorabili le telefonate ai genitori contadini che non capivano nulla, né di calcio né delle parole emozionate, concitate e arruffate di Giorgio, inframmezzate da scatti di ultimi gettoni, cadute e faticose riprese della linea. Mi vedrete in televisione, andate alla Casa del popolo – ché loro la tv mica ce l’avevano – anzi no, aspettate, il tempo di andare a Milano e ve la compro io – ma quelli non avevano neppure l’elettricità in casa, prima c’era da fare l’impianto – e dunque meno male che poi i gettoni finirono una volta per tutte, perché non c’era altro tempo, si doveva correre. Il pullman per Milano passava alle 5, voleva prendersi il giorno libero in fabbrica ma quelli niente, dice che c’era una consegna da fare e lui allora ma sì, andaà a dà via el chiul vui e la fabbrica, polentoni, se vediamm’ a Sanziro, li salutò dimettendosi, mescolando dialetti e improbabile futuro.

L’arrivo alla Stazione centrale più o meno una scena di “Totò  Peppino e la malafemmena”, con lui che indossava il vestito buono della Cresima e gli amici che sapevano della beffa ma in fondo gli erano anche grati di vivere quell’avventura. Perché loro lo avevano visto giocare nello spiazzo dietro il Cimitero, e sapevano che quando scendeva sulla fascia con le sue finte non ce n’era per nessuno. E in un certo senso si erano convinti che quella lettera di convocazione, sebbene scritta da loro stessi, poteva pur essere vera, anche sgrammaticata com’era. Tanto nessuno se n’era accorto, né loro che l’avevano scritta fra le risate, né Giorgio che l’aveva letta fra le lacrime.

Ovviamente, alla sede dell’Inter, trovata dopo varie traversie, nessuno li conosceva né attendeva, non furono neppure fatti entrare sporchi e sudati com’erano, fermati alla guardiola da un tipo alto ed elegante che più che un portinaio sembrava Giuliano Sarti, il portiere della Grande Inter di Herrera. La squadra che continuò a vincere tutto anche senza l’aiuto di Carringia.

Alla fine in lui si dovette certo fare strada la consapevolezza di essere stato preso per il culo. Eppure la sua reazione non fu quella sensata di prendere coscienza che il pallone poteva continuare ad essere uno svago, ma per sbarcare il lunario occorreva rompersi la schiena come tutti quelli della sua generazione e della sua terra. Farsi una famiglia, vivere una vita dignitosa, giocare ancora partite ogni tanto, insegnare ai propri figli quella finta che lo rendeva immarcabile.

Invece abbandonò completamente il pallone. Per un po’ lo ripresero in fabbrica, ma non durò, cambiò numerosi lavori,  e neanche col passare del tempo riuscì a superare quella tremenda delusione. Così a poco a poco cadde in una brutta depressione e all’età di appena trent’anni, che ne dimostrava già venti di più, senza una donna e senza un obiettivo, tornò al paese e lì si arrangiò a sopravvivere. Nei momenti buoni, con qualche giornata in cambio di poche lire o solo per un pasto caldo. Ma quando l’oscurità era così forte da non fargli ritrovare neppure la via di casa allora trascorreva le intere giornate nei bar a spendersi a birra la piccola pensione della madre, lamentandosi del suo amaro destino con gente che, ancora una volta, lo ascoltava qualche minuto solo per consolarsi che c’era chi stava peggio e poi, indifferente, lo abbandonava lì. Con cento lire buttate sul bancone per lavarsi la loro coscienza e fargli fare un altro bicchiere da un quarto, ridendo del consunto giornaletto porno che portava sempre sotto il braccio. Che certe volte glielo dicevano: se vuoi fare lo sporcaccione, almeno non farti notare, fai come fanno gli altri, nascondi la rivista dentro un quotidiano.

Carringia – che il soprannome nonostante tutto gli è rimasto – quel giornaletto lo porta ancora con sé in bella vista, ma non per mancanza di discrezione, tutto il contrario. Perché i sogni non glieli strappi del tutto neppure a un vecchio alcolizzato di settant’anni, quanti ne ha ora Giorgio.

Certe sere se ne va verso il camposanto – la gente pensa vada a pregare o addirittura che parli coi morti, quel pazzoide – sale a fatica la scarpata sottostante al muro di cinta e si accovaccia dietro ad un cespuglio di ginestra. Nello stesso posto dove tanti e tanti anni fa c’erano gli spalti di quel campo improvvisato. Tira fuori il porno, si mette comodo e con studiata lentezza lo apre alla pagina centrale, dove c’è la modella del mese, la più provocante.

Ma a lui le tette della pin up non interessano affatto, o meglio, non in quel momento e in quel posto. E’ ben altro che vuole guardare, di cui vuole ancora una volta godere.

Sotto al poster, ben nascosta agli sguardi ed alle prese in giro, conserva la pagina della Gazzetta del 13 agosto 1966, il giorno in cui il presidente Angelo Moratti aveva preso la sacrosanta decisione di ingaggiare nell’Inter quel giovane campione.

E da quell’antica tribuna ora coperta di rovi, se hai ancora occhi buoni, cuore e voglia di sognare, pure a distanza di quasi cinquant’anni lo vedi volare sulla fascia destra, lungo il torrente, seminando avversari come birilli fra gli applausi dei tifosi, agile e imprendibile come una farfalla.

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